Si sente spesso discutere in merito ai mezzi per l'accertamento della paternità.
Iniziamo con il dire che l'accertamento della paternità può seguire ogni mezzo di prova: l'unico limite è imposto dal codice civile laddove, all'articolo 269, afferma che la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all'epoca del concepimento non costituiscono prova della filiazione.
Il mezzo più diffuso, comunque, è una consulenza tecnica consistente in un prelievo immuno-ematologici, eseguiti su campioni biologici del preteso genitore o dei suoi parenti: meglio conosciuto come test del DNA.
Negli ultimi anni è andata sempre più diffondendosi il ricorso a detto mezzo, anche grazie ad una maggiore certezza nell'esito: peraltro, la fiducia in detto strumento è stata anche recentemente confermato nell'ordinanza della Corte di cassazione n. 14916 del 13.07.2020, secondo cui "in materia di accertamenti relativi alla maternità e alla paternità, la consulenza tecnica ha funzione di mezzo obiettivo di prova, e costituisce lo strumento più idoneo, avente margine di sicurezza elevatissimo, per l'accertamento del rapporto di filiazione".
Nello stesso provvedimento, si legge altresì la conferma di un ulteriore orientamento della Corte: ossia quello secondo cui costituisce un valido indizio non solo il rifiuto di sottoporsi ad un simile accertamento, ma anche la ripetuta opposizione alla relativa istanza.
Addirittura, parte della giurisprudenza (ex pluribus Cass. ord. n. 16128/19 del 14.06.2019) ha anche ritenuto che il rifiuto ingiustificato di sottoporsi al test possa configurare un riconoscimento della paternità.
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