Il polverone alzato dal DDL Pillon ha contribuito a puntare i riflettori sull'inadeguatezza della legislazione in tema di famiglia e conflitto che è attualmente vigente.
Lo stesso conflitto, peraltro, che vige tra la normativa: basti ricordare gli attacchi recentemente mossi alla riforma Pillon.
Come può, dunque, essere partorita una riforma che garantisca la serenità nel dirsi addio, se gli addetti ai lavori sono tutto fuorchè sereni?
E, tuttavia, bisogna riconoscere che il dibattito scaturito ha contribuito a riaccendere i riflettori sul tema della mediazione famigliare, uno strumento tanto utile quanto ignorato o bistrattato.
La mediazione famigliare è un percorso che si svolge dopo aver preso cosciena delle ostilità personali e aver scelto di metterle, almeno temporaneamente, da parte.
In questa pausa, la coppia sceglie di affidarsi ad un professionista terzo, che li aiuti a riorganizzare le proprie relazioni stravolte dalla fine dell'unione e che li guidi in questo percorso in modo totalmente autonomo rispetto alla via giudiziale.
Di regola, il percorso ha una durata di circa tre mesi articolata in dieci incontri, che ciascuna parte può scegliere di interrompere in ogni momento.
Va infatti ricordato che il percorso di mediazione è su base volontaria e non può attaccare le sue radici se non considerato e condiviso.
Il percorso di mediazione deve prescindere da ogni decisione di natura legale: le parti devono dunque riconoscere l'esistenza di problemi a rapportarsi e decidere, in autonomia, di affidarsi ad un professionista che li aiuti ad uscirne.
Tuttavia, il magistrato competente dovrebbe suggerire alle parti, anche avendo riguardo del singolo caso, di affidarsi ad un mediatore per risolvere quegli attriti che la legge ed un tribunale non possono risolvere.
Ovviamente, questa non può fare miracoli e neppure può essere imposta: tuttavia, può essere un valido strumento e un'alternativa ad anni di conflitti
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